La meditazione che spegne i dolori

cerchio zen

La pratica zen sarebbe in grado di disattivare le aree del cervello che elaborano gli stimoli dolorosi

Chi medita percepisce il dolore, ma non lo elabora come tale. Questa, in sintesi, la scoperta dei ricercatori dell’Università di Montreal, pubblicata su Pain, una delle più prestigiose riviste nel campo dello studio del dolore e del suo trattamento. Nei cultori di questa pratica non vengono solo riscontrate risposte più attenuate al dolore, ma è stato possibile riscontrare anche il vero e proprio spegnimento di quelle aree del cervello che permettono di capire, valutare ed emozionarsi.

LA RICERCA

Già a febbraio del 2010 un gruppo di scienziati dell’Università di Montreal aveva pubblicato una ricerca secondo cui la meditazione zen sarebbe in grado di aiutare a sopportare il dolore inducendo modificazioni nella struttura del cervello. Ma i ricercatori canadesi hanno deciso di andare oltre, per capire a fondo il presunto meccanismo analgesico dell’antica pratica orientale. «Chi pratica la meditazione zen è conscio del dolore - spiega Pierre Rainville, che ha coordinato il nuovo lavoro -, ma il suo cervello non elabora questa sensazione in maniera canonica, cioè in quelle aree (la corteccia prefrontale, l’amigdala e l’ippocampo) deputate al ragionamento, alla valutazione e all’emozione. Sente il dolore ma in qualche modo è come se si astenesse dall’etichettare lo stimolo stesso come doloroso». La ricerca ha coinvolto 13 cultori di questa pratica e altrettante persone che invece non vi si erano mai dedicate: a tutti l’attività cerebrale è stata monitorata con la risonanza magnetica funzionale dopo che era stato prodotto uno stimolo doloroso. In parallelo sono state raccolte le sensazioni provate dai partecipanti allo studio. «I meditatori, in particolare quelli con maggiore esperienza, hanno riportato di aver percepito meno dolore rispetto agli altri, risultato questo che si correla perfettamente con la minore attività cerebrale riscontrata nella corteccia prefrontale, nell’amigdala e nell’ippocampo - spiega Rainville -. In questi individui lo stimolo doloroso viene percepito come in tutti gli altri a livello della corteccia cingolata anteriore, del talamo e dell’insula, ma poi non viene trasmesso a quelle aree del cervello che devono elaborarlo, e quindi la sensazione dolorosa risulta attenuata». «I nostri risultati - continua Joshua Grant, principale autore della ricerca - cambiano l’attuale concezione di controllo mentale, che non si raggiunge aumentando l’attività cognitiva, ma, al contrario, in maniera del tutto passiva, ovvero spegnendo alcune aree del cervello, in questo caso quelle normalmente coinvolte nell’elaborazione del dolore».

"SENTO, CAPISCO, SOFFRO"

«Sento, capisco, soffro: così Mario Tiengo, professore emerito di Fisiopatologia e terapia del dolore dell’Università Statale di Milano, scomparso lo scorso settembre, era riuscito a sintetizzare in tre semplici parole l’essenza del dolore - racconta Paolo Grossi, presidente per l'Italia dell'ESRA (European Society of Regional Anesthesia and Pain Treatment) e responsabile del Servizio di Anestesia locoregionale e terapia del dolore al Policlinico San Donato di Milano -. Tutti sentono il dolore, ma, come dimostrano anche i ricercatori canadesi, l’entità della sensazione provata dipende da come lo stimolo viene elaborato dalla mente, ovvero dall’interpolazione fra la situazione in cui ci si trova e ciò che il dolore rappresenta. L’esempio del soldato è uno dei più calzanti: per chi è in guerra, un ferimento significa il ritorno a casa. Ecco perché i soldati feriti hanno una percezione molto attenuata del dolore. Per un malato terminale il dolore è invece il sintomo di un destino purtroppo già segnato, e quindi viene spesso sentito con ancora più intensità - spiega Grossi, che di Tiengo è stato allievo -. I risultati pubblicati su Pain sono quindi sicuramente meritevoli di attenzione da parte della comunità scientifica, ma è ancora lunga la strada da percorrere perché queste conoscenze trovino un’applicazione nei reparti degli ospedali» conclude l’anestesista milanese.

Lisa Trisciuoglio

Fonte: Corriere

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